Sibelius, Valse Triste

Breve composizione, circa sei minuti a seconda dei tempi di metronomo, il Valse triste è forse – più delle sinfonie, più del poema per orchestra “Finlandia” che descrive la grandiosità del paesaggio scandinavo – il brano che meglio delinea la personalità del compositore finlandese. Un piccolo gioiello con un’origine e un epilogo che meritano d’essere raccontati. Nel 1903 Sibelius, dopo una giovanile infatuazione wagneriana, e dopo avere subìto l’influenza di Bruckner e Čajkovskij, mentre già da tre anni percepisce dallo Stato uno stipendio poi trasformato in vitalizio che gli consente di dedicarsi completamente alla musica, compone i suoni di scena per “Kuolema”, che in finlandese significa “La morte”: un testo drammaturgico scritto dal cognato, pièce incentrata sulla vicenda di un ragazzo di 19 anni che veglia la madre morente. Una composizione che non ha successo e viene abbandonata. Il primo dei sei pezzi che compongono questa Kuolema è un “Tempo di Valse lente – Poco risoluto”. L’anno dopo Sibelius lo riprende, lo riorchestra, aggiunge alla strumentazione originaria di soli archi un flauto, un clarinetto, corni e timpano. E in questa nuova veste lo presenta a Helsinki come Valse triste, riscuotendo immediato consenso di pubblico. Non solo: secondo il racconto di Sigurd Wettenhovi-Aspa, amico del compositore, l’idea del valzer era nata nella mente di Sibelius al piano superiore di un elegante ristorante della capitale, tra ostriche del Nord e chinino. Il musicista, infatti, stava malissimo, era preda di una grave influenza e il chinino era la medicina disponibile all’epoca. Qualche mese più tardi, ristabilitosi dopo un periodo di totale inattività dovuto alla malattia, Sibelius fu costretto a vendere la partitura a un prezzo molto basso, per raggranellare qualcosa a tutti i costi. Due anni dopo il Valse triste, nato alle latitudini dell’aurora boreale, era un successo planetario. E’ una musica meravigliosa, da ascoltare e riascoltare perché a ogni passaggio svela venature non immediatamente percepibili. E’ misteriosa e allo stesso tempo generosa. Si concede lentamente, poi quando entrano i due fiati, flauto e oboe, in un raddoppio quasi mozartiano, è come se l’avessimo da sempre nella nostra vita. Per un attimo il flauto riporta alle origini folcloriche nazionali, ma in un istante ci sembra d’essere a corte nella Vienna di Francesco Giuseppe. Ed è capace di reggere il confronto con “La Valse” di Maurice Ravel, e forse è più raffinata, più intima, più dolorosa, anche perché la scintilla compositiva di Sibelius nasce da una sorta di idea “a programma”, alla quale il musicista ha dato forma e sostanza con un impianto d’eleganza orchestrale. La musica, infatti, pensata come abbiamo visto per accompagnare la scena di una donna stravolta dal dolore, regge anche come brano a se stante, mantiene una forza lenitiva, leggera, un passo lieve di valzer che sostiene la sofferenza in punta di piedi (ma un’idea di valzer, sublimata). Dopo una lenta introduzione, avviata da un pizzicato delicatissimo, quasi impercettibile, si snoda su una melodia dei violoncelli. Poi il discorso armonico si anima e si rinforza, quasi per trasportare in un turbinio la donna sul letto di morte, sino a che la musica si dissolve nel nulla. E’ un pezzo che ha trovato ampia diffusione negli auditorium sinfonici, sebbene lasci anche suggestioni cameristiche, e che in Finlandia, dove ovviamente Sibelius è un eroe nazionale, ha un posto d’onore come musica “di rappresentanza” non lontano da quello che il valzer “An der schönen blauen Donau” di Johann Strauss figlio rappresenta per i viennesi e per la capitale dell’ex impero. Rimane il simbolo di un luogo, di una nazione, dell’anima malinconica di una terra nordica. Anche se questa pagina mantiene essenzialmente un “compito triste”: il ragazzo veglia la madre morente, ma si assopisce proprio quando la donna, nel dormiveglia, sogna di essere a un ballo, visitata da una sconosciuta, che è la morte stessa. La musica, dunque, ha la funzione di una colonna sonora ante litteram, è il sottofondo alla scena di un delirio, e dunque il suo percorso musicale, il suo sviluppo, è ritagliato su questo tipo di evoluzione drammaturgica. Ascoltandola oggi, separata dal suo testo teatrale, ma conoscendone le intenzioni programmatiche, la danza che accompagna la morte ne stempera la presenza inquietante, toglie spessore al tema macabro. E’ sì struggente, una linea di mestizia già dalle prime battute, ma l’abilità di Sibelius è quella di non farcelo percepire: è come se il dolore e la morte fossero a un ballo, non c’è buio, non c’è disperazione. Dunque, una musica dolente e languida insieme. Patetica e consolatoria. Il direttore d’orchestra Antonio Pappano, la cui interpretazione del Valse Triste è tra le più intense, commenta così: «Un valzer che s’inebria di tristezza, con gli archi che flessuosamente riportano alla nostalgia di un quadro familiare che presto si disperde in una nuvola, assopita dall’amarezza che si tratti di un sogno. Questi sei minuti di Sibelius sono uno dei brani più commoventi nella storia della musica e ci guidano in quei meandri del ricordo che, non appena affievolito, si riaccende in un miraggio iridescente».

fonte: www.fondazionegraziottin.org