Baricco, botta e risposta

Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un'indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un'agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.

In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.

Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.

A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.

Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.

Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.

Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv

Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l'intervento pubblico è massiccio, l'esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all'opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l'indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall'essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l'emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.

Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.

Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.

Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).

Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.

Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?

Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?

Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.

Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.

Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.

1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.

Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.

2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?

Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.

Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.


Alessandro Baricco

da "la Repubblica"

Stefano Zanobini, in risposta a Baricco

  La lettera di Baricco pubblicata recentemente da Repubblica, che potete leggere nel nostro archivio di articoli, ha sollevato un gran polverone sul mondo della cultura e degli spettacoli e nel mio piccolo mi piacerebbe fare un po' di chiarezza.
  Premetto che ho salutato positivamente la lettera in questione, perché il mondo dello spettacolo, così come molti altri settori del nostro Paese, soffre spesso di conservatorismo, inefficienza e immobilismo. D'altra parte non sono riuscito a spiegarmi come mai una persona così intelligente come Baricco abbia banalmente messo sul piatto tanti argomenti suggerendo soluzioni semplicistiche e sensazionalistiche; spero che non sia solo per egoistici motivi di immagine (si sa che molto spesso gli artisti sono capaci di scandali e scoop col solo scopo di attirare l'attenzione su di se).
  Purtroppo le reazioni dei giorni seguenti sono state se possibile ancor più deludenti: il regista di film che dava ragione a Baricco a dare più soldi alla Tv, il Sovrintendente di un Teatro che diceva che tutto doveva rimanere com'era, il direttore d'orchestra che lamentava le spese faraoniche delle messinscene operistiche... sembrava che ognuno cercasse di tirare un pò d'acqua al suo mulino, ora che tale acqua scarseggia (a causa dell'ultimo taglio al Fus operato dal Governo Berlusconi IV) e forse ancor più scarseggerà (a causa della crisi economica internazionale).
  Cercando di essere un pò più obiettivo e il più breve possibile elencherò gli elementi che mi sono piaciuti della lettera, quelli che credo siano errati e quelli su cui la lettera ha sottaciuto, portando ad esempio le mie esperienze, ovvero quelle di un musicista che ha studiato e lavorato con la musica in Italia, ma anche all'estero.

  • Più Fondi alla Scuola, più Cultura a Scuola

  Questa è sicuramente la proposta più azzeccata da Baricco, anche se bisogna ammettere che avrà benefici a lunga scadenza, a partire dalle prossime generazioni.
  La Cultura, lo sappiamo, accresce l'Umanità. Eppure... la musica attualmente viene insegnata soltanto nelle Scuole Medie.
  Solo alcuni professori illuminati portano i propri studenti in teatro, mentre ciò dovrebbe essere previsto dal Piano di Studio e dal Piano d'Offerta Formativo di tutte e scuole di tutti i livelli.
  In queste condizioni, come sperare che i giovani siano interessati alla cultura?
  Come dice Baricco bisogna puntare su una crescita culturale delle nuove generazioni.

  • Tv veicolo di promozione culturale

  Anche questo punto è importante. Così come la scuola dovrebbe coltivare la cultura dei giovani, la televisione potrebbe sensibilizzare tutti gli italiani in tal senso. Un canale televisivo pubblico di qualità che presenti in prima serata concerti, opere e spettacoli teatrali diventerebbe un canale di nicchia (come è già RadioTre), ma amato e necessario per una società.

  • I soldi non ai Teatri bensì alla Tv

  Qui casco completamente dalle nuvole. Questa affermazione è assolutamente sbagliata (e piuttosto stupida) per almeno due motivi:

  1. la Rai sta letteralmente sputtanando (mi passi il termine) soldi pubblici per proporre costosissimi programmi da Tv generalista!!! Basterebbe eliminare dal palinsesto l'isola dei famosi per pagarsi 3 mesi di registrazioni di spettacoli di ogni genere!!! Quindi si risparmierebbero soldi e contemporaneamente si alzerebbe la qualità della Tv in Italia!!!
  2. togliere soldi agli spettacoli dal vivo significherebbe farli morire (cfr. prossimo punto).


  •  I Teatri possono vivere di soli sponsor privati

  E' vero? Facciamo due esempi pratici:

  1. USA*. Il finanziamento pubblico alle orchestre è minimo → Le orchestre sono pochissime: delle 29 città americane con più di 500.000 abitanti solo 19 hanno un orchestra stabile (N.B.: Firenze ha 370.000 abitanti). La cultura musicale, a parte le grandi metropoli molto vive ed attive artisticamente, è pressoché zero.
  2. GERMANIA**. Il finanziamento pubblico è tra i più alti del mondo → si contano 84 orchestre per l'opera, 30 sinfoniche, 12 orchestre delle radio tedesche, 7 orchestre da camera. Totale: 133 orchestre stabili!

  Cosa vuol dire ciò? Il privato finanzia 100 sapendo che il ritorno d'immagine sia 105 e questo, nel campo musicale, succede solo con le orchestre più blasonate: in Italia rimarrebbe in vita solo la Scala di Milano e forse una delle due orchestre romane. Ergo: Firenze sarebbe senza orchestra! Poi, come già succede in città americane come Milwaukee o San Jose, ogni due anni si organizzerebbe un grosso evento (per esempio i Wiener Philharmoniker) che attira finanziamenti privati... come dire... una cattedrale nel deserto culturale dell'America (Italia?) profonda.
  Il confronto che Baricco fa con le case editrici è piuttosto fallace visto che:

  1. le case editrici in Italia sono finanziate dagli annuali acquisti scolastici (cosa che non succede in altri paesi europei, dove i libri vengono forniti dalle scuole);
  2. il libro è un bene di consumo di massa di uso quotidiano (bus, treno, a letto prima di addormentarsi...) quasi obbligato per combattere momenti di noia, mentre l'andare in teatro è una scelta per il tempo libero.

  Altro discorso è ovviamente il nascondersi dietro la foglia di fico del finanziamento pubblico per disinteressarsi completamente dei ricavi dalla bigliettazione, dell'apporto di finanziamenti privati o della risposta di pubblico. E' assolutamente giusto che il sistema cerchi di essere efficiente ed economicamente florido e fornisca una programmazione che attiri l'interesse della gente e questo avviene attraverso una obiettiva ed effettiva valutazione del lavoro dei CdA degli Enti.

  • Razionalizzazione delle spese dei Teatri

  Ecco un punto assolutamente dimenticato da Baricco. Alcuni Enti Lirici (in genere quelli più grandi e politicamente più forti) hanno capitoli di spesa assolutamente folli che rappresentano probabilmente una buona fetta dei finanziamenti privati. Questo magna-magna di pochi eletti fa si che le risorse (attualmente scarse) vadano a mancare per altri progetti culturali più piccoli e finanziariamente assai più razionalizzati, facendo diminuire d fatto l'offerta culturale.

  • Razionalizzazione dei finanziamenti

  Altra ricetta non menzionata da Baricco è il cercare che i finanziamenti non si contrappongano inutilmente intralciandosi tra loro. Da un certo punto in poi il frazionamento dell'associazionismo musicale non rappresenta una ricchezza dell'offerta, bensì soltanto un'aumento dei costi. Gli artisti in una città non sono infiniti! Saranno sempre loro a suonare per le varie stagioni musicali, le quali diventano per forza di cose molto simili tra loro.
  Per non parlare poi del rischio di far nascere piccoli baroni e mafiosi, per di più spesso culturalmente di basso profilo, che impongono le proprie regole del gioco!

Stefano Zanobini

* fonte: http://www.americanorchestras.org/
** fonte: http://www.orchesterstiftung.de/